Sifyn e la sua scelta in un magazzino odoroso di spezie, Racconto , fantasy, serio

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PinguinoMannaro
view post Posted on 31/7/2006, 16:53




Sifyn e la sua scelta in un magazzino odoroso di spezie

L’autunno portò piogge insistenti, odore di legna bruciata e lei. Sifyn aveva dodici anni quando giunse in città. Attese a bordo della nave mentre un servitore correva sotto l’acquazzone per annunciare il suo arrivo. La carrozza che giunse era ricca di stucchi e dorature, trainata da una coppia di cavalli sbuffanti. Il capitano stesso della nave la riparò dalla pioggia con il proprio mantello, sospeso sopra di lei come una tettoia odorosa di cera e di sudore maschile, per permetterle di attraversare la passerella senza che i suoi capelli dovessero bagnarsi.
La portarono alla sua nuova casa, che era molto più ricca di quella che non avrebbe mai più rivisto. Dalla cucina giungevano piatti raffinati cui lei non era abituata. Il suo letto era soffice di piume. Figure mitologiche di ogni genere si rincorrevano lungo le stanze affrescate, le loro forme fissate per sempre in un attimo immutabile. Quel fauno avrebbe eternamente inseguito la giovane ragazza che si trovava a appena un metro da lui. Eternamente l’uccello che si intravedeva tra i rami avrebbe disteso le sue ali senza mai riuscire a prendere il volo. - Così sono anch’io - lei si trovò a pensare tra sé la sera di quel primo giorno, quando finalmente il turbinio di volti che le si era affaccendato attorno si dissolse lasciandola sola per la notte e anche la cameriera personale che l’aveva accompagnata dalle terre tormentate delle coste meridionali l’ebbe abbandonata. – Anche io come un quadro non posso che agitarmi immobile. Come il pittore ha fissato quelle immagini per sempre e esse non possono che percorrere eternamente quel singolo gesto così il destino ha fissato per me ciò che devo essere e io non posso essere altro che ciò che sono. – e con quel pensiero si addormentò, per la prima volta sulla terraferma da che aveva lasciato le aule echeggianti di ferro del castello di suo padre.
Lei era l’unica figlia del duca di Rulger. Era venuta a Bricomar per sposarsi, per forgiare un’alleanza e per salvare la sua città, e aveva dodici anni.

- Che tipo è lui veramente? – chiese Sifyn a Ghilferro una sera in biblioteca, quando egli ebbe terminato la lezione che le stava elargendo. La lezione aveva trattato della caduta dell’impero di Tugor, della guerra magica, del sorgere dei boschivi e dell’ascesa di Bricomar. Ghilferro era il suo tutore, incaricato di istruirla e ospitarla nella sua casa fino al momento del matrimonio, da lì a un anno. Aveva capelli bianchi, un sorriso amichevole e occhi penetranti e numerosi, perché come per tutti quelli della sua razza due paia di occhi si litigavano lo spazio disponibile sul suo viso. Uno per vedere le cose materiali, l’altro, di colore più cupo,eternamente aperto e senza palpebre, per la magia. Ghilferro era un Fyr Finct, un immortale e un mago.
Due sopracciglia si inarcarono in risposta alla domanda della sua allieva. – Mi sembra che tu ti distragga troppo facilmente. A chi ti riferisci?
- A mio marito. Il mio futuro marito, cioè. Com’è?
Quattro pupille, troppo strette in un solo volto, si sollevarono esasperate verso il cielo, ma Sifyn era in quella casa da due settimane e aveva imparato a fidarsi del buon carattere che si celava dietro quell’aspetto così bizzarro.
- Sì, lo so che dovrei aspettare domani per incontrarlo, ma potresti dirmi qualcosa intanto. So già che ha due anni più di me, e Crisityl dice che lo ha incontrato e le ha fatto una buona impressione ma tu sei il solo che frequenta abitualmente la casa di Grevia.
- Non c’è molto da aggiungere allora. Lo incontrerai domani. Non mi sento di dirti molto. Non penso sia una cattiva persona, e quanto all’aspetto Crisityl te ne avrà parlato con più competenza di me. Non mi sento di discutere la bellezza di un umano, tanto meno di uno così giovane.
Sifyn attese nella speranza che Ghilferro volesse aggiungere qualcosa ma il Fyr Finct rimase immobile, i suoi quattro occhi amichevoli puntati verso di lei.
- Almeno potresti dirmi se secondo te saremo felici insieme.
Per un momento ci fu silenzio in biblioteca. Era una grande sala luminosa, con alte pareti coperte di libri e una passerella che l’interrompeva a metà altezza per facilitare l’accesso ai ripiani più alti. Il soffitto mostrava un’allegoria della sapienza, raffigurata come una donna che stringe nella destra una pergamena e, nella sinistra, il collare di un leone domato. Sul pavimento tre tavoli si allineavano con il loro corredo di sedie, tutte vuote tranne due.
La sala parve rabbuiarsi. Le ombre si incupirono tra i gradini della scala a chiocciola che portava alla passerella. Gli scaffali si intinsero di tenebra. Il viso di Ghilferro si fece serio. I suo i occhi si chiusero ma i suoi _altri_ occhi, quelli che non erano umani si accesero come se avessero risucchiato tutta la luce dalla stanza e quella luce fosse ora lì fiammeggiante all’interno del cranio del mago.
- Tu sai cosa sono io?
Sifyn, annuì terrorizzata. Il mago era sempre stato bonario e gentile con lei. Non sapeva cosa fare di fronte a questa sua nuova terrificante manifestazione. Sforzandosi di controllare il tremore nella sua voce annuì ancora e disse
- Tu sei un Fyr Finct – disse.
Ghilferro annuì a sua volta. Le ombre sulle pareti danzarono accompagnando il movimento delle sue orbite infuocate. Riflessi si accesero e morirono sulle finestre. Esistenze sgargianti e effimere.
- Quando il mondo è stato creato, io c’ero. Quando i miei fratelli si sono ribellati, io c’ero. Ora che forse il mondo volge al suo termine, io ci sono. Vivere tra voi è la punizione al mio tentennamento e il premio alla mia decisione, ma tu non mi irriderai ponendomi domande a cui ho già rifiutato di rispondere.
Sifyn annuì ancora. Non poteva fare altro. Il tremore che la scuoteva non era più paura ma gelo, perché non solo la luce ma anche il calore avevano abbandonato la stanza. C’era solo il buio ora, e il gelo, e due tizzoni sospesi nel vuoto là dove si erano trovati gli occhi _altri_ di Ghilferro. Si udì uno schiocco, come di un ramo spezzato, e Sifyn seppe senza poterlo vedere che il calamaio sul tavolo si era infranto quando l’inchiostro si era gelato in un solo improvviso blocco di ghiaccio.
- Allora la risposta ti sia punizione per la tua arroganza e premio per le scelte che non hai fatto ancora. Tu non conoscerai la felicità. Tre volte ti verrà offerta la scelta e tre volte sceglierai il dolore piuttosto che la gioia. La terza volta ti porterà la morte. Il tuo grembo produrrà frutti ma tu sopravviverai a ognuno di essi. Ma farai ciò che deve essere fatto.
E con quella frase si spensero i fuochi che illuminavano le orbite di Ghilferro , Le ampie finestre tornarono a illuminare la sala. Il calore tornò nelle vene di Sifyn. Gli occhi, quelli normali, di Ghilferro si spalancarono orripilati per ciò che era stato detto. Sifyn lo abbracciò piangendo e lui le offrì tutto il conforto di cui era capace. Il tappeto assorbì le loro lacrime e quel giorno si seppe se davvero quattro occhi sanno piangere più di due. Ma ciò che era stato detto non poteva essere cancellato, e ciò che era stato annunciato non avrebbe mancato di accadere.

L’inverno giunse poi, innevato e bianco come un abito nuziale o un osso da cui fosse stata estratta tutta la polpa. I giorni furono più brevi ma non meno colmi di impegni. La notte impaziente la precedeva alla mensa serale e un albeggiare pigro si faceva attendere ben oltre l’ora di levarsi. Lei svolgeva i suoi compiti e di tanto in tanto gettava lo sguardo oltre i vetri su cui il gelo aveva disegnato figure incomprensibili di brina. Aveva conosciuto il suo futuro marito. Come due cani che si girano attorno annusandosi l’un l’altro sotto la coda così lui e lei si erano studiati circospetti nella gala delle feste e nella formalità delle cene fino a concludere con reciproco sollievo di essersi reciprocamente indifferenti. Nulla, tranne ovviamente il destino comune del matrimonio, li legava. Nulla la disgustava o la attraeva in lui e, allo stesso modo, nulla di lei sembrava destare in lui un interesse o un fastidio particolare. Erano come due colonne sui lati opposti di un fiume che dovessero fare da supporto allo stesso ponte o come due affreschi di mano diversa su pareti opposte della stessa stanza. Si videro spesso. Si parlarono, sotto gli sguardi soddisfatti degli adulti che avevano combinato il loro matrimonio. Poiché erano entrambi educati e consapevoli di ciò che ci si attendeva da loro, i loro dialoghi assunsero presto la familiarità indifferente dell’abitudine. Lui aveva quattordici anni, lei dodici e entrambi sapevano che il matrimonio sarebbe stato un patto d’affari tra le loro famiglie. Null’altro sarebbe stato lo scambio degli anelli se non una firma calcata un po’ più fortemente in calce al contratto. Poco meno di un anno separava i giovani promessi sposi dagli imenei ma gioia e timore non albergavano nei loro cuori malgrado l’approssimarsi di una data così fatidica. Piuttosto, essi non guardavano affatto a quella data, come persone che da troppo tempo abbiano familiarità con un oggetto di scarsa importanza per degnarlo della propria attenzione.
Una volta al mese, precisa quanto può esserlo chi dipende dalle correnti impetuose e dalle brezze incostanti, una nave recava da sud un cilindro di cuoio sul cui sigillo di ceralacca faceva mostra di sé lo stemma turrito del duca di Rulger. Di mano in mano quel cilindro aveva lasciato le dita guerresche e ricche di cicatrici del duca per passare in quelle agili di un commerciante. Il palmo di un marinaio, calloso di gomene e timoni, lo aveva deposto nella stiva della nave, dove il cilindro aveva atteso pazientemente, proteggendo il suo contenuto dalla salsedine e dai topi che correvano tra le casse ricolme di ricchezze. Lo stesso marinaio lo aveva poi tratto dalla stiva per affidarlo alle mani operose di un servitore che lo aveva portato alla casa del mago. A quel punto, le dita sottili e delicate da dodicenne di Sifyn ricevevano il cilindro e, facendo leva con la lama di un coltello, lo scoperchiavano spezzando la ceralacca e esponendo le delicate viscere di carta.
Così un padre scriveva alla figlia attraverso l’oceano procelloso e le strade affollate di pericoli. Così, ripercorrendo all’inverso gli stessi passi, una figlia rispondeva al padre. Così due voci si levavano da sponde opposte in una conversazione fatta di parole vergate con cura, di lunghi silenzi in attesa e di timori quando una nave tardava a arrivare e il ritardo portava con sé pensieri che rumoreggiavano come legni infranti sugli scogli.

- Spero che ci fossero buone notizie – Le chiese Ghilferro un giorno.
Lei rispose inespressiva, immobile e sorridente. Da tre giorni stava posando per un quadro, che avrebbe dovuto essere consegnato al suo promesso sposo in cambio di quello che lui le aveva donato e che faceva mostra di sé lungo la galleria al piano superiore. In quel quadro egli era raffigurato in armatura, con una spada al fianco,l’elmo in mano così da avere il volto scoperto e un’arzigogolata serie di simboli che snocciolava come il registro di un contabile le ricchezze e il potere della sua famiglia. Sifyn sapeva che quel quadro era costato almeno una settimana di interminabili noiosi giorni di immobilità e ora le si prospettava un pari sforzo per ricambiare. In disparte nella stanza, un musicista e un giocoliere si applicavano per renderle meno penosa quella staticità forzata. Per due giorni erano stati provini , bozze schizzi e annotazioni per determinare la posa migliore, quella che più valorizzasse il suo aspetto e maggiormente permettesse di esporre ciò che lei avrebbe contribuito all’unione. E ora lei era lì, immobile come il quadro che sarebbe diventata, paludata di gonne e broccati, sbocciante di trine e di gioielli. Le sue mani composte in grembo stringevano una spiga di grano e un fiore a rappresentare i campi della sua terra e una poesia famosa di un poeta morto da secoli. Accanto a lei, in un disordine meticoloso, si accatastavano armature, anfore, drappi, statue. Ognuna un simbolo, come le avevano spiegato, e anche la sua posizione era un simbolo. Siediti in questo modo, perché questa posizione intende l’imperiosità del tuo titolo nobiliare. Tieni le mani in questo modo, perché la destra sulla sinistra rappresenta il dominio di dio sulle creature che gli sono successive. Sorridi in questo modo. Rivolgi gli occhi così. Girati da questo lato. Simboli. Le era venuto da piangere al termine di tutte quelle istruzioni, ma non aveva potuto farlo, perché le sue lacrime avrebbero mostrato la sua debolezza. Un simbolo anche le lacrime, di qulcosa che non poteva esibire Ma lei si era chiesta: è questo che sono dunque, un simbolo? Null’altro? E’ questo che siamo tutti? E’ a questo che si riduce la nostra vita? Ogni nostro gesto una pennellata su un quadro ogni nostra parola un pigmento su una tela: il carminio della rabbia, il celeste della gioia, la cupa tenebra della disperazione e il verde che può essere sia bramosia che speranza? E al termine un quadro, la nostra vita, che verrà guardato senza interesse e riposto da qualche parte in soffitta da coloro che ci succederanno. E’ questo che siamo tutti?
E ora era lì, immobile come il quadro che sarebbe diventata, pittura tra le pitture, negli affreschi che ornavano la stanza. Le sue labbra si mossero rispondendo a Ghilferro, unica parte mobile di un corpo immobilizzato dalla necessità. Il suo ricordo andò agli automi che aveva visto ornare la torre del palazzo del governo. Una volta al giorno, trainati da meccanismi invisibili nascosi all'interno del palazzo essi uscivano dai loro recessi e compivano i loro gesti, sempre gli stessi. Una semplice pantomima sempre identica. E per quanto prodigiosi fossero stati i loro artefici, c’era un’arteficiosità ineludibile nel loro muoversi. Un gridare ‘menzogna’ ad ogni dischiudere di labbra, un mimare ‘falso’ in ogni bronzeo scuotere di membra. Perché nulla si muoveva in essi se non ciò che doveva muoversi. E nulla si mosse il lei nel rispondere se non le labbra sorridenti.
- Né buone né cattive. Le mura resistono. I campi non sono abbandonati ma i contadini non si sentono sicuri. I boschivi sono sempre più numerosi lungo il confine e i mercenari che il mio futuro marito è stato così generoso da contribuire stentano a trattenerli. Sia maledetto chi ha generato i boschivi, ma le notizie non sono cattive. Il confine tiene e mio padre vive.
- Non maledire – le rispose Ghilferro, il suo viso si stagliava pallido contro le rocce montane affrescate sulla parete. Sarebbe apparso scuro se egli avesse mosso un passo in più fino a contrastarsi contro le cime coperte di neve. Affreschi. Affreschi ovunque in quella casa, e quadri, e statue. C’era qualcosa in quella casa che non pretendesse di essere qualcosa d’altro? Un muro che non si fingesse un bosco, un soffitto che non parodiasse il cielo, un blocco di marmo che non imitasse le forme dell’umanità? - Pensi che il nostro mondo sia a corto di maledizioni?
- Il nostro mondo scarseggia di maledizioni come questa casa difetta di pitture. Eppure, come è vero che proprio per una pittura sto posando, trovo difficile non aggiungerne ancora. Due generazioni appena sono trascorse da che i maghi folli generarono i primi di quella stirpe per combattere le loro guerre. Il mondo era in pace quando nella città di Rulger nobili e popolani assieme levavano i calici a festeggiare la nascita del padre di mio padre. E ora io vengo esule a offrire le terre della mia famiglia al figlio di un commerciante in cambio di accordi e truppe che le proteggano. I boschivi hanno seminato lutti come i contadini seminano il frumento e io non dovrei maledire il grembo osceno che ha partorito il primo tra loro? Loro uccidono e io non dovrei odiare? Loro distruggono e io non dovrei desiderare il tormento eterno per chi li ha creati e ne ha smarrito il guinzaglio? Non sono forse umana anche io? Non è rosso il sangue nelle mie vene come quello delle loro vittime? Non ho forse visto i soldati migliori di mio padre ridere a pranzo e poi, a cena, tacere il cupo silenzio di chi in una fossa attende la palata di terra del becchino?
Ghilferro attese con calma il termine della sfuriata. Più in là, il pittore procedeva con la sua tela facendo mostra di non sentire. In fondo alla stanza, i musici continuavano la loro melodia. I giocolieri roteavano i loro attrezzi. Gli affreschi, con le loro montagne innevate in lontananza e gli improbabili pastori troppo lindi e ordinati per essere veri, erano attorno, testimoni immobili e indifferenti.
- E tu per questo, come un oste distratto, verseresti altra ira in un calice che già trabocca? Trattieniti piuttosto e tempera con la saggezza il vino troppo forte del furore! Credi non fosse rosso come il tuo il sangue di chi ha creato i boschivi? Credi che un’ira meno sentita della tua lo animasse? Credi che non amasse la sua famiglia o che meno di te sperasse in un futuro felice per la sua terra? Non lasciare che l’ira ti domini come dominò i maghi folli. Fai ciò che devi per costruire, non per distruggere. Ne sarai distrutta come accadde a loro se come loro credi che l’odio possa aiutarti..
Sifyn non rispose, immobile e sorridente in posa per il suo ritratto. Ghilferro sospirò, un sospiro triste che diceva più di mille parole che non si illudeva di averla convinta.
E intorno a Sifyn e a Ghilferro si trovava la stanza affrescata, e attorno ancora il palazzo. E la città. E oltre il mare un continente, grande e spaventoso, dove le mostruosità magiche di una guerra terminata da anni si moltiplicavano in luoghi oscuri e crescevano in odio e potenza.

Come un lago, alimentato da una sorgente sotterranea, senza fiumi che lo raggiungano né sbocchi, solo e vasto in una vallata, può presentare al suo centro una piccola isola e quell’isola sembra doppiamente sola perché, sola in mezzo alla solitudine, somma spiccando nelle acque la propria alla solitudine del lago, così Sifyn appariva nella piazza. Indossava gli abiti dei migliori sarti della città. Due file di perle ornavano il suo collo e nulla se non oro e rubini era degno di fermare i suoi capelli. Un falegname o un fabbro, lavorando per un anno, mettendo da parte ogni spicciolo, avrebbero forse radunato denaro a sufficienza per un decimo della metà del valore della sua gonna che era il meno prezioso dei suoi indumenti.
Questa era lei, come un’isola. E attorno a lei il lago: le lastre di pietra della piazza imbiancate dal gelo, e le coste del lago: le guardie che le facevano spazio spintonando la folla e urlando ‘ largo all’erede di Rulger’.’largo alla sposa di Grevia’.
Così s’avanzava verso la chiesa Sifyn, erede di Rulger, promessa sposa all’erede di Grevia, destinata, e meno di due manciate di mesi la separavano da quel giorno, a unire le terre antiche della propria famiglia alle ricchezze nuove di quella di lui offrendo alle une sicurezza e alle altre un nuovo dominio. Così s’avanzavano la necessità e il dovere. Così s’avanzava una dodicenne sudando sotto il peso dei broccati e gelando là dove l’eleganza imponeva dovesse esserci pelle nuda.
E accanto a lei, perché non una ma due isole si trovavano in realtà in quel lago, vicine abbastanza da sembrare una sola e la seconda, più grande, asservita alla prima, la sua cameriera il cui nome era Vica e i cui capelli biondi.
- Mia signora.
- Dimmi.
- Non conosco le materie su cui trascorri le tue giornate né possiedo la tua elegante calligrafia, io che computo a malapena il mio nome e come uno spaccalegna accatasto le sillabe della mia firma sul foglio, ma per i ventisette inverni che hanno rattristato i miei occhi, di questo sono certa: non troverai gioia nel matrimonio che ti attende.
- Né, per i dodici anelli che, fossi io un albero, ornerebbero l’interno del mio tronco, mi aspetto di trovarne. Ferra con più accuratezza la pariglia di cavalli delle tue labbra e conducila lungo strade meno battute se vuoi che le tue parole raggiungano la terra del mio stupore.
Vica annuì e gettò uno sguardo nervoso attorno a sé. A metà mattinata il sole illuminava la città pallido come la lanterna di un avaro ma la piazza era affollata di passanti e rumorosa di voci e di carri. La neve era candore sui tetti ma ghiaccio insidioso e sporco sul selciato. La chiesa era imponente di pietra azzurrina e marmi e statue altezzose. Gli apostoli di Igitugor si allineavano nei riquadri del suo portone lavorato, ordinati quando era caotica la folla nella piazza che quel portone fronteggiava. Difficilmente qualcuno avrebbe potuto cogliere le parole di Vica anche se costei avesse parlato normalmente, ma ugualmente la sua voce si fece sommessa.
- Il timore di ciò che devo dirti ha reso troppo cauti quei cavalli, ma ora li lascerò correre e vedremo se neppure questo basterà a stupirti: avendo io a cuore la tua felicità, ho parlato con un mercante che percorre le vie dell’interno. Dopo avergli fatto giurare il silenzio abbiamo stretto accordi e ora solo una tua parola ti separa da ciò che ho progettato. In cambio di solo pochi dei tuoi gioielli ti comprerà sotto falso nome una casa in una città dell’entroterra. I gioielli e le ricchezze che potrai portare con te fuggendo di nascosto basteranno a mantenerti per tutta la vita, non nello sfarzo che vedresti rimanendo a Bricomar ma nella felicità di un’esistenza di tua scelta. Libera piuttosto che sposata per dovere. Non più condotta svolta dopo svolta in un labirinto di obblighi e costrizioni né guidata come una puledra dalle briglia invisibili della necessità. Allora, cosa mi dici, ho raggiunto come dicevi la terra del tuo stupore?
- Hai raggiunto quella terra. – ammise Sifyn – e hai esplorato di essa più di quanto avrei voluto. Davvero, secondo te, dovrei tradire mio padre, accettare le ricchezze che mi vengono offerte e, godendo le gioie, rifiutare i doveri? Non sei venuta con me da Rulger? Non hai come me una famiglia in quella città? Non sai che solo legando le nostre fortune a quelle di Bricomar possiamo sperare di sopravvivere ai boschivi che ci assediano da ogni parte?
- Conosco meglio di te i boschivi, che se tu pranzavi con i capitani la mia famiglia forniva i soldati. E questi più che quelli appesantiscono di monete le tasche di chi incide in belle lettere il nome dei morti sulla pietra. Due fratelli avevo le cui braccia amorose non stringeranno più altro che i vermi. Quando ancora le loro labbra non si erano mescolate al fango che calpestiamo mi hanno raccontato dei confini e di ciò che vi si può incontrare. Toraci che si possono attraversare con lo sguardo come fossero fascine di legna secca, tendini fatti di salice, denti che sono spine di gaggia e capelli che sono rovi. Questo mi ha raccontato, e mi hanno detto del loro numero che cresce ogni anno. Questa alleanza non salverà nessuno. Non gettare la tua vita in una speranza inutile. Tu sei come una goccia d’acqua che voglia da sola spegnere un incendio. Quando i lupi aggrediscono il gregge nessuna pecora si getta tra le loro fauci solo per offrire alle sue compagne una salvezza destinata a durare un battere di ciglia.
- Quando i lupi attaccano il gregge – rispose Sifyn – il cane che li accudisce si getta in loro difesa e muore senza chiedersi se il suo gesto salverà le pecore che gli sono state affidate. Quando un incendio divampa la goccia di rugiada fa la sua parte e evapora senza tradire il suo dovere. Mi credi forse da meno di un cane o più incostante di una goccia di rugiada che evapora al primo sole? Incontrerò colui che dici, ma rimpiango il seme che hai piantato, perché l’albero sarà maligno e il frutto velenoso e coperto di spine.
E con queste parole attraversò portone che una delle guardie teneva spalancato e entrò nella chiesa odorosa d’incenso. Un dio pietoso abitava le alte navate del tempio. Sifyn alzò le sue preghiere al cielo silenzioso, ma quel dio che ha creato l’umanità libera non può obbligarne le scelte.

Dentro la città il palazzo di Ghilferro. Nel palazzo l’appartamento di Sifyn. Nell’appartamento una stanza, nella stanza un armadio, nell’armadio valigie e in una di esse una scatola e nella scatola un imbottitura foderata di velluto e protetti dall’imbottitura una fiala e un anello.
Sifyn prese entrambi.
E chiuse la scatola.
E serrò la valigia.
E fermò le ante dell’armadio.
E tirò con cautela la porta fino a sentire lo scatto della serratura.
E stringendo la fiala e l’anello attraversò le stanze che le erano state assegnate. Superò la camera da letto consacrata al riposo. Passò il salotto dove su tavoli ornati aveva sorseggiato dolci bevande. Lasciò dietro di sé la stanza dei giochi affollata di scacchiere di legno pregiato e pedine scolpite abilmente. Calpestò, esitando per un attimo ma senza fermarsi, il tappeto dell’atrio, dove una porta conduceva al resto del palazzo e al mondo, terribile e ostile. Nello studio, dove aveva passato ore esercitandosi a scrivere nella migliore calligrafia e studiando quelle materie che la sua posizione le imponeva di conoscere, lì si preparò all’incontro.
E quando fu pronta giunse Vica e la condusse fuori da quella stanza.
E fuori da quell’appartamento. E fuori dal palazzo, da porte secondarie da cui nessuno avrebbe notato il suo passaggio.
E lungo vie tortuose. E ripide discese illuminate dalla luna calante. Lungo strade sdrucciolevoli e insidiose che si torcevano come serpi sulle colline. Vica reggeva una torcia e Sifyn la seguiva mentre le ombre attorno a loro si inchinavano a ogni ondeggiare di polso della cameriera e si rialzavano in forme mostruose seguendole come un corteo deforme lungo le mura delle case.

Il magazzino aveva lunghe travi scure che trafiggevano il soffitto e casse pesanti odorose di spezie. Gli odori pungenti, destinati a coprire il sapore di carni conservate troppo a lungo, aggredirono le narici di Sifyn. L’uomo che le accolse aveva abiti rossi e l’eleganza fuori moda di un mercante che vuole fare durare il denaro investito in un abito buono. I suoi capelli erano pettinati con cura e il suo sorriso era ampio e affollato di denti rosi dalla carie.
- Benvenuta – esclamò al loro ingresso rivolgendosi direttamente a Sifyn con una familiarità molesta – Allora, possiamo dare come stretto questo affare? Mi sento come una freccia incoccata da troppo tempo mentre l’arciere esita troppo a lungo a prendere la mira o come una nave troppo a lungo ancorata al porto quando un vento allettante la spingerebbe verso altri mercati., se capite cosa intendo dire. – l’uomo strizzò l’occhio, convinto forse di avere detto chissà quale spiritosaggine.- Allora, mostratemi i gioielli e io vi procurerò una casa bella a tale punto che una regina non disdegnerebbe di abitarci e tanto economica che non sentirete la borsa più leggera per averla pagata. Allora, è cosa fatta? Presto, prima che io mi penta della mia generosità e aggiunga altri e più giusti balzelli al prezzo troppo basso imposto dalla mia bontà!
- Se il pentimento, come le tue merci, si pesasse sul piatto di una bilancia allora potremmo vedere chi possiede la merce più greve tra me e te. Ma il desiderio non conta di fronte alla necessità. E’ cosa fatta.
E con queste parole Sifyn porse la mano ornata di anelli alla stretta del mercante.
E tra gli anelli, come una vipera nascosta nell’erba bassa, si nascondeva quell’anello che Sifyn aveva prelevato dalla scatola. Raffigurava un fiore quell’anello, di una specie quale mai si vide nel mondo. Ogni petalo terminava in una spina aguzza, un aculeo, un dente intinto nel veleno. Bastò una lieve torsione della mano a perché quei petali conficcassero, un’irrevocabile condanna a morte nelle vene del mercante.
- Cos’è questo bruciore ?- chiese l’uomo, e poi, comprendendo, mosse tre passi all’indietro e finalmente crollò a sedere sul legno scricchiolante di una cassa , fissando incredulo il proprio braccio - Perché mi fai questo? Non era troppo alto il mio prezzo né la mia merce più indegna di quella di chiunque altro, ma tu mi uccidi. Non era offensivo il mio parlare, né troppo alti i miei interessi quando davo denaro in prestito, ma tu mi uccidi. Le mie bilance non hanno mai segnato altro che una giusta misura, ma tu mi uccidi. Non avrei avuto che un giusto guadagno da questo affare, ma tu mi uccidi. Dimmi almeno come ti ho offeso, perché se è amara la morte, ancora più amaro per me è morire senza che io possa vedere senso o giustizia nella mia morte.
Sifyn rispose piangendo, nell’indifferenza delle casse polverose e nell’odore di spezie che raccontava di ricchezze e di terre lontane e di navi che avevano navigato per lunghi mesi lasciando dietro di sé una traccia di spuma e cadaveri come tributo al mare ostile. Come spiegare a quell’uomo i legami più forti dell’ acciaio che la legavano alla sua terra? Il dovere di proteggere da qualsiasi maldicenza quel matrimonio che non desiderava perché quel matrimonio proteggesse a sua volta la sua città? Vica, in disparte era pallida, allibita e silenziosa.
- Non di un’offesa che mi hai recato sei vittima, ma della mia debolezza. Troppo malamente il mio animo, come un ladro inesperto che non sfugge al custode,ha celato le sue avversioni dietro frasi fiorite e sorrisi. Per questo un cuore troppo gentile ha creduto di aiutarmi, ma non posso accettare la fuga che mi offre. Più di cento volte mille uomini in una terra che amo, che mi appartiene e a cui io stessa appartengo attendono aiuti che solo questa città può offrire con un patto che solo io posso stringere. Più di cento volte mille voci hanno sussurrato alle mie orecchie questa sera e ogni sussurro era lo stesso. Oh, perdonami, ma se la voce si fosse sparsa che io ho anche solo considerato la fuga allora più di cento volte mille uomini sarebbero morti per la mia debolezza. Troppo grande questo pericolo per affidarmi alle discrezione di un uomo di cui non sapevo nulla.
Il mercante era sempre più pallido, seduto sulle casse, scomposto come un abito gettato via. La pelle, del colore di un cero da chiesa era lucida e tesa. Gli abiti rossi fradici di sudore. I capelli inzuppati aderivano al cranio come alghe su una pietra lasciata in secco dalla marea. Gli occhi erano febbricitanti. La mano sinistra stringeva il braccio là dove il fiore di Sifyn aveva imposto il suo bacio letale. La vita fuggiva da lui come vino prezioso da un otre infranto. Come in una candela ridotta ormai al solo stoppino, la luce abbandonava il suo sguardo.
- E per questo io muoio dunque? Il timore di una bambina ha posto fine ai miei giorni? Sento il mio braccio gelido, le gambe non mi reggerebbero se io provassi a alzarmi e le mie vene sono tubature vuote nella mia carne. Il mio cuore corre impazzito ma sento che il gelo lo ha quasi raggiunto e so che presto riposerà per sempre. La morte, accanto a me, ha già levato la falce e non passerà un minuto prima che io sappia se i miei peccati erano così gravi da non meritare perdono. Ma prima che questo accada, bambina mia, ricevi la maledizione che ti scaglio contro con il mio ultimo alito : possa tu vedere la tua gente sterminata, la tua terra in rovina, la tua famiglia dispersa. I tuoi averi siano preda dei tuoi nemici e la tua casa divenga ostello di porci. I tuoi amici più cari ti tradiscano e gli animali selvatici facciano scempio del tuo cadavere. Sia maledetta per sempre tu, la tua famiglia e la tua gente, perché io ero innocente e per colpa vostra muoio.
- Oh, non maledirmi in quel modo – lo implorò allora Sifyn – Ho forse agito per altro che il bene della mia gente? Abbi pietà delle nostre sofferenze e non aggiungere la tua maledizione ai troppi pesi che ci affardellano! Abbi pietà di te stesso almeno se non di me che non la merito e non varcare le porte senza ritorno così greve di rabbia invisa a Dio!
Ma il mercante era morto, con il veleno nel sangue e un’ultima maledizione negli occhi. Sifyn, singhiozzando, gli abbassò le palpebre.
Poi uscirono, lei e Vica, percorrendo a ritroso le vie tortuose che le avevano condotte a quel luogo di dolore. Salirono lungo la collina e presto Sifyn non avrebbe più saputo indicare quale, delle ombre che si affastellavano più in basso, fosse il tetto sotto cui aveva tolto la vita a un uomo innocente.
Entrarono nel palazzo da una porta secondaria.Vica non pronunciò parola aiutando la sua padrona a vestirsi per la notte, ma scrutava con timore le dita di lei e l’anello che ancora fioriva alla sua mano destra.
Poi, dopo che la cameriera si fu ritirata, Sifyn raggiunse una stanza dei suoi alloggi, aprì una porta, un armadio una valigia e una scatola e ripose nelle loro custodie una boccetta e un anello sagomato in forma di fiore.
E richiuse la scatola, la valigia l’armadio e la porta e tornò nel suo letto, ma dormì poco e male quella notte.

La biblioteca aveva pareti coperte di libri e una passerella che costeggiava le mura a metà altezza per rendere più accessibili i ripiani più alti. Il soffitto mostrava un’allegoria della sapienza, raffigurata come una donna che stringe nella destra una pergamena e, nella sinistra, il collare di un leone domato.
Sifyn raggiunse la passerella, saggiò con la mano la solidità degli scaffali e si inerpicò su di essi fino a sfiorare con le dita le vesti candide della sapienza.
- Ho forse insegnato a una scimmia o a uno scoiattolo senza saperlo? – chiese sotto di lei la voce divertita di Ghilferro. – Cosa ci fai là sopra?
Sifyn non si voltò, in precario equilibrio con i piedi sul bordo di un ripiano e il palmo delle mani puntellato contro il soffitto
- Questo affresco – rispose – a vederlo bene da vicino non è così bello come sembra da sotto.
Ghilferro non rispose. Sifyn si azzardò a voltarsi e lo vide lì sotto di lei, che la scrutava con i suoi quattro occhi. Due erano occhi umani e vedevano una giovane donna, poco più che una bambina, arrampicata in una posizione strana e instabile al culmine di uno scaffale.
Gli altri occhi, però, non erano umani e solo Ghilferro avrebbe saputo dire cosa vedevano.












 
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view post Posted on 23/9/2022, 16:00
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